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giovedì 10 gennaio 2008

Cambiamenti climatici: a Bali un risultato sofferto*

Si è appena conclusa in un’atmosfera di tensioni e di suspense, la conferenza delle Nazioni Unite sul clima a Bali, Indonesia. Fino all’ultimo si è temuto il fallimento di quello che rappresenta per il pianeta una speranza di salvezza. Sabato 15 Novembre è stata firmata la “Roadmap”, una piantina di incontri di lavoro per camminare – si spera tutti insieme - fino a Copenaghen, prossimo appuntamento fissato nel 2009 prima della scadenza del Protocollo di Kyoto nel 2012. Le contraddizioni sono esplose durante i quindici giorni della conferenza. Cattive e buone volontà vanno come sempre di pari passo. 187 paesi rappresentati con 10 mila delegati provenienti da nazioni altamente industrializzate e in via di sviluppo, hanno provano a proseguire sul cammino iniziato a Kyoto, dove con mille difficoltà, si è firmato un protocollo per ridurre le emissioni di gas a effetto serra, una delle cause del riscaldamento del clima mondiale.


Yvo de Boer, Segretario Generale della Convention delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), si dichiara soddisfatto di due decisioni significative. La prima riguarda l’accordo unanime su modalità e calendario di future negoziazioni sul pericoloso tema dei cambiamenti climatici. La seconda verte sull’importanza di effettuare e verificare il necessario transfert di tecnologie dai paesi industrializzati ai paesi poveri per sostenere questi ultimi nell’adattamento agli stessi cambiamenti climatici (aiuto allo smaltimento dei rifiuti, adeguamento di piani di sviluppo, trasformazione delle politiche economiche, sostegno alle politiche sanitarie ecc.). Si parla di aumentare il fondo delle Nazioni Unite da destinare loro, ma le cifre proposte sono assolutamente insufficienti. I maggiori responsabili dell’inquinamento sono i paesi altamente industrializzati e i paesi poveri subiscono gli effetti disastrosi del fenomeno senza i mezzi necessari per risolvere i problemi. Le conseguenze sono oramai conosciute: la fame aumenta in parallelo all’impoverimento dell’agricoltura, alle distruzioni delle zone coltivabili ed abitabili con alluvioni, alla desertificazione inarrestabile, all’aumento degli uragani e altri fenomeni naturali sempre più violenti e frequenti. Un recente rapporto delle Nazioni Unite ha illustrato che i cambiamenti climatici sono all’origine di un nuovo tipo di rifugiati: i “rifugiati climatici”.

I paesi emergenti non ce la fanno


Oxfam International, rispettabile ed autorevole confederazione internazionale che raggruppa 13 ONG indipendenti e si dedica alla lotta contro la povertà e l’ingiustizia, ha pubblicato un suo rapporto in concomitanza alla conferenza di Bali. I segnali di disastri ambientali sono visibili dappertutto. Il mare invade progressivamente il Bangladesh, paese già fortemente provato da violenti tifoni. Allagamenti abnormi hanno costretto popolazioni intere a spostamenti verso altre zone. Lo stesso fenomeno si verifica nel Pacifico dove alcuni atolli sono scomparsi nell’oceano a causa di maree sempre più alte e travolgenti. La situazione dei ghiacci al Polo Nord e al Polo Sud dei quali abbiamo già parlato (Libertà 3 ottobre 2007) - e la situazione dell’oceano glaciale Artico in particolare – continua a preoccupare gli scienziati impegnati nei programmi di ricerca nel quadro dell’Anno Polare Internazionale.
Spitzberg, Luglio 2007

Con la strana eccezione del Perito Moreno in Argentina, tutti i ghiacciai stanno diminuendo pericolosamente. Dalle montagne dell’Europa a quelle delle Ande e dell’Himalaya, il ghiaccio sparisce progressivamente e con esso le scorte di acqua per le future generazioni. La crisi climatica attuale potrebbe portare alla distruzione definitiva di alcuni ecosistemi. Molte specie di animali e vegetazione, importanti nell’equilibrio del pianeta, sono scomparsi o sono in pericolo.
Delfini, Azzorre, Luglio 2006

Orso Polare alla ricerca di cibo, Spitzberg, Luglio 2007


Lo sfruttamento sfrenato ed abusivo delle ricchezze della terra portano non solo ad un impoverimento della stessa, ma a degli squilibri pericolosi che rischiano di tradursi in aumento delle migrazioni di essere umani, in instabilità sociali, in fonti di conflitti, in pauperizzazione generalizzata, in disastri ambientali e quindi sanitari.

Famiglia nomade, Ladak, India 2007



Non solo i paesi poveri,
il caso dell’Australia

Alcuni paesi sono già il teatro di fenomeni preoccupanti e questi flagelli non riguardano solo paesi emergenti: l’Australia, ad esempio, sta vivendo una siccità di proporzioni sconosciute che ha provocato incendi devastanti. Secondo uno studio del Gruppo Intergovernamentale sull’Evoluzione del Clima delle Nazioni Unite (GIEC), le temperature di quel paese, il più secco del mondo, aumenteranno di 1,3°C fino al 2020 e di 6,7°C fino al 2080, con critiche mancanze d’acqua, assenza di raccolte, distruzione della fauna e della flora, rischio di desertificazione. Forse gli ultimi avvenimenti sono all’origine del cambiamento di politica del governo australiano che esce così da una morosità sulle questioni climatiche. In un articolo del 5 dicembre del quotidiano The Australian, la nuova ministra responsabile dei problemi del clima, la senatrice Penny Wong, ha espresso la decisione del suo governo, diretto dal nuovo primo ministro Kevin Rudd, di incaricare un gruppo a Bali per trovare le soluzioni al problema. “Vogliamo che tutti siano coinvolti nelle negoziazioni e faremo del nostro meglio per assumere un ruolo di leadership. La nostra ratificazione del Protocollo di Kyoto rappresenta all’evidenza un passo significativo in questo senso.”

Sarebbe imprudente pensare che questi pericoli concernano solo realtà lontane dalla vecchia Europa. Paesi come la Gran Bretagna e la Francia sono preoccupati dai cambiamenti che si verificano nelle zone costiere. Il senatore francese Roland Courteau ha appena sottoposto una sua relazione alla Commissione Parlamentare di valutazione sulle scelte scientifiche e tecnologiche sui rischi di tsunami sulle coste francesi. Questo passo segue la comunicazione del Primo Ministro François Fillon, in una riunione internazionale a Lisbona in Novembre, della decisione del Governo francese di creare un Centro di Allerta agli Tsunami.

America
Latina,
un continente a rischio
Lo stesso GIEC delle Nazioni Unite già citato, allerta sul surriscaldamento del pianeta con effetti già visibili in America Latina dove si segnala un alzarsi delle temperature con una conseguente evaporazione. Questa situazione, secondo lo stesso gruppo di esperti, può condurre ad una perdita di acqua nelle falde, un inaridimento della foresta amazzonica orientale con una trasformazione della stessa in savana, una desertificazione e salinizzazione delle zone già semi aride con gravi ripercussioni sull’agricoltura e l’allevamento. L’aumento crescente del livello del mare, fenomeno attualmente sotto osservazione sui litorali della terra, mette a rischio le popolazioni costiere. Uragani come Catarina nel 2004, frequenti nei Carabi e in America Centrale, non si erano mai visti nel Sud del Brasile, constata Carlos Nobre, scienziato del Centro di Meteorologia e Studi Climatici presso l’Istituto Spaziale brasiliano. Teme che il fenomeno si possa riprodurre nell’Atlantico Sud e abbia origine nella situazione climatica attuale. Ancora il GIEC dell’ONU prevede un aumento della temperatura in America Centrale di 6,6°C nel 2080 con siccità estreme se delle decisioni e delle politiche decise non sono messe in atto adesso.Foresta Amazzonica, Equador, Luglio 2003

Nelle Ande, il Perù, benché responsabile solo per lo 0,4 % dell’inquinamento con gas a effetto serra nel mondo, ha il triste privilegio di figurare come il terzo paese a rischio più alto a causa dei cambiamenti climatici. Paese di contrasti, con una parte del territorio coperto dalla foresta amazzonica, zone del litorale semi desertiche e altissime montagne con ghiacciai, il Perù subisce gravi trasformazioni. Il Niño è sempre più forte e a causa del surriscaldamento, i ghiacciai diminuiscono. Marco Zapata Luyo, direttore dell’Unità di Ghiacciologia e Risorse Idriche dell’INRENA esprime preoccupazioni per le conseguenze che causerà sulla popolazione la scomparsa dei ghiacciai peruviani. Da un rilevamento aereo eseguito nel 1989 per identificare il numero dei ghiacciai, risultavano 3.044 ghiacciai su 2041 km2. Nel 1997, un nuovo rilevamento segnalò la scomparsa di 111 ghiacciai con una riduzione dell’estensione di 446 km2 (dati forniti dalla ONG Friends of the Earth).


L’Africa,

un continente “condannato”?

Il processo di desertificazione avanza, Senegal, Marzo 2005

Troppo spesso l’Africa viene alla ribalta per notizie raccapriccianti: guerre, bambini soldati, tratta di schiavi, AIDS, fame, siccità, rifugiati, migrazioni interne ed esterne… Il Global Warming, surriscaldamento del pianeta, si fa sentire nella sua drammaticità immediata in Africa. Non sono previsioni futuriste probabili, ma purtroppo già realtà.

Senegal, Marzo 2005

Il Mali, uno stato senza sbocco sul mare, è dominato dal deserto su grande parte del paese, Sahara al Nord e Sahel al centro, zona sempre più arida. Nella parte meridionale, grazie alle piene del fiume Niger e all’irrigazione, si produce cotone. Il paese vive a quasi 90% dell’agricoltura. E’ ormai risaputo che il disboscamento dell’Africa è all’origine del processo di desertificazione e che si estende sempre più velocemente in un modo che gli esperti considerano inarrestabile. La desertificazione e i cambiamenti climatici sono responsabili dell’accelerazione di un altro triste fenomeno che si estende a macchia d’olio: la siccità. Quelli che erano attesi come difficili ma temporanei periodi diventano una costante in molte regioni. Negli anni 70/80 la siccità si è estesa sul Mali in modo drammatico. Sono seccati i pochi alberi (eucalipti, piante spinose, acacie, baobab…). Durante 5 anni consecutivi di siccità sono morte 250.000 persone e 3,5 milioni di animali. Si è assistito ad una migrazione interna verso i centri urbani di migliaia di rifugiati disperati. La Provincia di Piacenza ha stretto solidarietà con il popolo Dogon e il Comune di Podenzano ha offerto di gemellarsi con il villaggio di Kani Bonzon. Grazie al lavoro dell’Associazione Ali 2000 e dell’infermiere Seydou, sindaco di Kani Bonzon, sono stati raccolti fondi ed esperti piacentini vanno regolarmente ad aiutare le comunità a forare i pozzi, a costruire strutture agricole e sanitarie, portando viveri per colmare l’emergenza. La solidarietà dei piacentini si è come sempre dimostrata efficace, ma da sola non può risolvere i problemi che sono di ordine strutturale.

Amanda Castello consegna l'Attestato di Membro Onorario dell'ART a Seydù Guindo, sindaco della Comunità di Kanì Bonzon accompagnato da Nicola Scotti, rappresentante dell'Associazione Alì 2000

Emmanuel Dlamini, direttore del Servizio di Meteorologia dello Swaziland, denuncia i “fenomeni climatici sempre più estremi e frequenti” e segnala il pericolo che corre il continente africano dove “negli ultimi 15 anni, il numero di giorni nei quali la temperatura ha raggiunto i 35°C è aumentato del 12% e la pluviometria è diminuita fino al 50% in settembre e ottobre, periodo in cui normalmente comincia la stagione delle piogge in molti paesi. In parallelo, la frequenza e la violenza dei temporali stano crescendo” e sono evidenti le conseguenze gravissime per “un’economia fortemente dipendente dall’agricoltura, quindi molto sensibile al clima”.

Quale soluzione per rispondere

all’”Emergenza Planetaria”?
Ogni parte del nostro pianeta mette in evidenza i danni di una situazione che Al Gore, Premio Nobel delle Pace, definisce “Planetary emergency”. Fino a quando vorremo credere che la questione dell’emergenza planetaria riguarda altri e che il riscaldamento globale avrà effetto solo sui paesi emergenti, continueremo ad essere complici per passività, indifferenza, egoismo o stupidità di un processo di autodistruzione del nostro mondo e del futuro dei nostri figli. Non è più possibile rifugiarsi dietro un ipocrita “non sapevo”. L’informazione è conosciuta da tutti. Bisogna ridurre le emissioni di CO2 nell’atmosfera senza pregiudicare lo sviluppo dei paesi emergenti. Carlo Petrini, in un interessante articolo pubblicato su Repubblica il 3 dicembre, scrive che “La soluzione ideale starebbe nel modello elaborato da Aubrey Meyer nel 2000. Si chiama "contrazione e convergenza" e parte dal presupposto che nessuno ha il diritto di sfruttare in maniera sproporzionata le risorse naturali: le nazioni dovrebbero quindi muoversi tutte verso lo stesso traguardo,compatibile con gli interessi degli altri Paesi e le capacità di tenuta della biosfera. I Paesi industrializzati dovrebbero ridurre (contrazione) il loro consumo di risorse fossili più di quanto i Paesi in via di sviluppo le aumentino (per raggiungere una convergenza). L'abbassamento del livello di emissioni dovrà dunque tener conto che i Paesi poveri hanno diritto a una crescita nei consumi, perché per avere un minimo di benessere ci vuole un minimo di energia. È la dignity line, un livello accettabile per tutti. Questa soglia sta molto al di sotto di quanto emettono i ricchi e poco più sopra di quanto emettono i poveri.” Ricordiamo che solo 36 paesi altamente industrializzati avevano firmato a Kyoto il protocollo con un impegno da concretizzare entro il 2012 e che Stati Uniti, Cina e India, i tre più grandi responsabili di emissione di CO2 non avevano firmato, per ragioni diverse naturalmente. Oggi sono stati attori al tavolo delle negoziazioni. La sfida che questa conferenza ha lanciato all’umanità è vitale. Molti pensano oggi che le proposte di Kyoto sono ormai superate e insufficienti. Una riduzione solo del 5,2% non può bloccare il processo di autodistruzione in atto. ONG autorevoli come Friends of th Earth e Greenpeace, studi in mano, chiedono che l’obiettivo sia portato al 30-40% di riduzione delle emissioni dei paesi industrializzati entro il 2020 e all’85% entro il 2050. Un progetto di Dichiarazione finale per la Conferenza, che si è appoggiato sui dati raccolti dal GIEC, la cui redazione è stata affidata a rappresentanti dell’Indonesia, dell’Africa del Sud e dell’Australia, aveva proposto una riduzione del 25 al 40% delle emissioni di gas a effetto serra dei paesi ricchi fino al 2020.

Gli Stati Uniti si sono rifiutati.

“Non possiamo più aspettare. Dobbiamo agire adesso”, dice Rizaldi Boer, climatologo indonesiano, preoccupato perché in questa parte del mondo stanno scomparendo le foreste a causa dell’estrazione brutale del legname richiesto dall’Occidente. Oltre a numerose specie di piante e animali che sono stati cancellati dalla superficie della terra, ai rischi per i suoi abitanti di cui abbiamo parlato precedentemente, cresce un altro pericolo direttamente collegato all’”emergenza planetaria” e al “surriscaldamento globale” dettagliatamente spiegato nel libro di Al Gore “Una Scomoda Verità – Come salvare la terra dal riscaldamento globale” (Rizzoli, marzo 2007) e nel DVD con lo stesso titolo. Possono sorgere dei “conflitti climatici”

Il quotidiano francese Le Monde del 10 dicembre osservava che “forse non è casuale se la relazione finale del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (PNUE) è stato pubblicato il giorno stesso della cerimonia a Oslo per il Premio Nobel della Pace ad Al Gore e al Gruppo intergovernamentale di esperti sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (GIEC). Questo documento ufficiale spiega come lo “scioglimento dei ghiacciai o l’esplosione del numero dei rifugiati climatici a causa della crescita degli oceani, è suscettibile a destabilizzare intere regioni.(…) Le zone a rischio identificate sono numerose: l’Africa Australe, il Sahel, il Mediterraneo, il sotto continente Indiano, la Cina, i Carabi e il Golfo del Messico, le Ande e l’Amazzonia.” A proposito dello stesso documento del PNUE, la Televisione della Svizzera francese, in una trasmissione del 10 dicembre, non esita a parlare di rischio di “guerra civile mondiale”.Bambino nepalese costretto ad emigrare con la famiglia nel Ladak India, Luglio 2007

Hans Schellnhuber, uno degli autori della relazione, direttore dell’Istituto di Ricerca sull’impatto del Clima di Potsdam e professore alla Oxford University, dice: “se il riscaldamento climatico non viene arginato, stati fragili e vulnerabili, attualmente mal gestiti, potrebbero implodere sotto la pressione di un riscaldamento globale, poi generare delle onde d’urto verso altri paesi.” Il rapporto del PNUE (http://www.unep.org/) Climate Change and Conflictla Germania ha adottato una serie di misure molto ambiziose per dimostrare a tutti la sua decisione di essere uno dei paesi capofila nella crociata in favore dell’ambiente (Le Temps 05.12.07). Sul sito dell’Ufficio Federale dell’Ambiente della Confederazione Elvetica si riporta una decisione della (Cambiamenti climatici e conflitti) allerta sull’aumento della “pressione migratoria” nel Sud del Mediterraneo e in particolare le popolazioni residenti nel Delta del Nilo e tutto il Nord Africa. Secondo l’esperto, le correnti migratorie si rafforzeranno a causa di fenomeni concomitanti come la mancanza di acqua, la perdita del rendimento agricolo, la crescita della popolazione e l’instabilità delle istituzioni politiche in loco. Nel suo articolo di Repubblica già citato, Carlo Petrini concludeva dicendo “da oggi guarderemo al summit di Bali come a un incontro di civiltà, come l'impegno delle nazioni a trovare una via alla giustizia e alla pace per il futuro. Viviamo un momento in cui è necessario instaurare una nuova etica, per la quale ciascun individuo prende coscienza della gravità della situazione e incomincia a modificare le sue abitudini e il suo stile di vita.” Rajendra Pachauri, Presidente del GIEC, organismo delle Nazioni Unite neo Premio Nobel della Pace da lunedì, insieme ad Al Gore, ha lanciato un ammonimento “I tempi delle domande è finito, quello di cui abbiamo bisogno adesso sono atti.” Alcuni segnali di buona volontà fanno sperare: Segreteria di Stato dell'Economia (SECO) che intende “sostenere un fondo innovativo della Banca Mondiale a favore del clima col versamento di 8,75 milioni di franchi. Grazie a questo fondo saranno finanziati provvedimenti per la salvaguardia della foresta tropicale. A Bali è stata inaugurata la Forest Carbon Partnership Facility (FCPF) della Banca Mondiale, il cui scopo è di congiungere i settori del clima e della foresta tropicale e di compensare finanziariamente la protezione della foresta tropicale e la rinuncia ad essa collegata di ulteriori emissioni di CO2.” I risultati “strappati con i denti”, ha detto un partecipante, non devono farci abbassare la guardia.

Uno degli obbiettivi della Conferenza, sostenuto fortemente dall’Unione Europea, fare iscrivere nel preambolo della Dichiarazione Finale la decisione di ridurre da 25 a 40% le emissioni dei paesi industriali, è stato boicottato dagli Stati Uniti, che alla fine hanno sottoscritto al testo ufficiale, ma rifiutando che le percentuali siano citate.

Quando si temeva per la sorte della Conferenza, Yvo de Boer, ha sottolineato l’importanza della “pressione dell’opinione pubblica”. Il capo negoziatore della delegazione Nordamericana, Paul Dobriansky, ha lui stesso riconosciuto che “gli USA si sono dichiarati pronti ad accettare la Bali Roadmap, dopo avere subito pressioni da altre delegazioni durante la plenaria dell’UNFCCC”, riferisce il Jakarta Post del 16 dicembre. Forse una spinta è venuta anche dalle decisioni di ridurre le emissioni, prese autonomamente da alcuni stati dalla confederazione americana dopo vari disastri ambientali recenti. "La maggioranza degli stati americani è con voi," ha detto Linda Adams, Segretaria all’Ambiente dello Stato della California recentemente devastato dall’uragano Caterina. Un altro elemento che ha avuto peso nelle negoziazioni è la travagliata politica interna americana. Chi occuperà la Casa Bianca dovrà prestare attenzione al malcontento di molti americani della politica dell’amministrazione Bush. Bali rappresenta comunque una vittoria se consideriamo, come scrive Hervé Kempf in Le Monde del 16.12, che “sei anni dopo aver tentato di affondare il Protocollo di Kyoto, Washington riconosce che la lotta contro il cambiamento climatico deve organizzarsi nel quadro delle Nazioni Unite”. “E’ l’inizio, non la fine” ha lanciato in chiusura il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon. Dichiarazione sostenuta dal nostro ministro dell'Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, che dopo aver affermato all’inizio della conferenza "Ci batteremo per fare in modo che ci sia un pieno mandato per il 2012 e anche un nuovo protocollo post-Kyoto”, ha informato che “il governo italiano, dopo tanti annunci, per la prima volta ha preso quest'anno dei provvedimenti per ridurre la CO2 e ha festeggiato l'apertura della Conferenza con la firma dei protocolli di intesa con tre Regioni per la costruzione di centrali solari e la progettazione di interventi massicci nell'edilizia e nei trasporti". Al termine della conferenza, il Ministro ha sottolineato che dovremmo tutti “ascoltare il Segretario Generale delle Nazioni Unite che parla di Rivoluzione Verde per l’economia del mondo. La nuova economia deve essere ecologica perché solo così avremo uno sviluppo compatibile col pianeta terra”. La conferenza di Bali si è conclusa. Da domani inizia una serie di appuntamenti con gruppi internazionali di lavoro per concretizzare le strategie e fissare calendari, obiettivi e controlli. La prima scadenza del dopo Kyoto è il 2012. Forse ci troviamo davanti ad una nuova rivoluzione tecnologica del mondo post-industriale dove le soluzioni non possono escludere l’approccio etico.




* Articolo scritto da Amanda Castello, pubblicato sul quotidiano Libertà del 18 Dicembre 2007

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